Muoversi 2 2021
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IL GIOCO DELL’OCA DELLA RETE CARBURANTI

IL GIOCO DELL’OCA DELLA RETE CARBURANTI

di Marco D’Aloisi


Marco D'Aloisi

Direttore di muoversi

Quando si ripercorre la storia della rete carburanti italiana si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un enorme gioco dell’oca dove, tra salti in avanti, deviazioni e ostacoli, ci si può ritrovare in un attimo al punto di partenza.
Il punto di partenza è nell’immediato dopoguerra e nei due decenni successivi, quando ci fu una subitanea crescita del numero di punti vendita che passarono dagli 8.000 del 1950 ai circa 40.000 del 1970, sulla scia del boom economico degli anni ’60 che portò ad un’impennata improvvisa della mobilità di merci e persone e dei consumi di carburante. Complice il fenomeno della motorizzazione di massa del Paese avviato già alla metà degli anni ’50 – dovuto all’arrivo sul mercato di modelli di auto praticamente alla portata di tutti, come la Fiat 600, a sua volta favorito dalla modernizzazione della rete stradale e autostradale e dall’avvio della costruzione dell’Autostrada del Sole. Si passò così dai 500.000 veicoli del 1950 ai 2,5 milioni del 1960, per arrivare ad oltre 12 milioni nel 1970.
Seguirono gli anni difficili dell’austerity e delle domeniche a piedi e non ecologiche come si chiamano oggi. Anni in cui i prezzi del petrolio sui mercati internazionali schizzarono su livelli mai visti prima, per arrivare nel 1981 in termini reali a 90 dollari/barile. L’economia stagnava e l’inflazione viaggiava in doppia cifra e si cominciò a sentire parlare per la prima volta di stagflazione. Iniziarono allora i primi tentativi di intervento su una rete nata negli anni ’30 che molti grandi operatori avevano progressivamente abbandonato perché scarsamente profittabile, stretti tra l’alto costo della materia prima e il sistema di prezzi amministrati che vigeva allora.

Scorrendo le cronache di quegli anni, ci si imbatte in una circolare del Ministero dell’Industria inviata a tutti i Prefetti, datata 31 agosto 1963, in cui già si faceva notare come “il numero dei distributori installati nel Paese sia andato sempre più aumentando in questi ultimi anni, ad un ritmo non in armonia con l’incremento, per quanto sensibile, verificatosi nel consumo di carburanti per autotrazione”. Nonostante questo avvertimento, lanciato da chi doveva vigilare sul sistema, il numero dei punti vendita continuò a crescere e solo con la Legge n. 1034/70 si provò a porre un freno bloccando il rilascio di nuove concessioni. Gli effetti furono tuttavia molto marginali.

L’economia stagnava e l’inflazione viaggiava in doppia cifra e si cominciò a sentire parlare per la prima volta di stagflazione. Iniziarono allora i primi tentativi di intervento su una rete nata negli anni ’30 che molti grandi operatori avevano progressivamente abbandonato perché scarsamente profittabile, stretti tra l’alto costo della materia prima e il sistema di prezzi amministrati che vigeva allora.

Dal 1970 in poi fu un susseguirsi di interventi di varia natura, volti tutti a favorire la ristrutturazione di una rete antieconomica, come ad esempio si fece con il Dpcm 8 luglio 1978 che conteneva specifiche norme di indirizzo alle Regioni, a cui la materia era stata delegata con la Legge n. 382/75 e soprattutto con il Dpr 616/77 con cui si diede una prima concreta attuazione al decentramento amministrativo previsto dalla Costituzione. Contemporaneamente si cercò di intervenire anche su altri aspetti che “ingessavano” il mercato e in particolare sul sistema dei prezzi amministrati. Ci vollero però diversi anni per condurli almeno ad un regime di sorveglianza, passando per un sistema basato sul famoso “scarto quadratico medio”  che, almeno nelle intenzioni, doveva essere parte di un disegno volto al miglioramento dell’efficienza  della  rete e all’allineamento agli standard degli altri Paesi europei che erano già intervenuti pesantemente sul numero  di impianti. In Germania, ad esempio, pur partendo da un numero superiore a quello italiano, in pochi anni ne furono chiusi ben 15.000. Solo a metà anni ’90 si arrivò alla liberalizzazione completa dei prezzi.
Scorrendo sempre le cronache di quegli anni, emerge un altro elemento che rafforza l’idea di trovarsi in un gioco dell’oca. Si tratta di un appunto datato febbraio 1985, inviato al Ministro dell’Industria Renato Altissimo, alle prese con l’aggiornamento del Piano energetico nazionale, dall’allora direttore generale delle Fonti di Energia, Giuseppe Ammassari, nel quale si leggeva che “il settore della distribuzione dei carburanti, nonostante il generale convincimento della necessità di razionalizzare, risulta il più sfuggente ad ogni processo decisionale e visto che gli strumenti esistenti non hanno consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati dal Pen, ma anzi si è accentuato il divario di erogato medio verso l’Europa, occorre procedere ad una revisione della normativa esistente con un nuovo  strumento legislativo  in modo da consentire l’attuazione dei processi di razionalizzazione e di deregolamentazione”. Da qui tutta una serie di proposte che andavano dallo snellimento delle procedure amministrative e liberalizzazione delle modifiche non direttamente impattanti sulla struttura (come, ad esempio, l’introduzione del self-service), allo snellimento e accelerazione dei tempi di rilascio dei permessi, fino all’ampliamento delle licenze di commercio e di esercizio dei servizi e alla contrattazione dei margini tra le parti interessate. Dopo Altissimo, ci provarono altri 4 ministri, tra cui Alberto Clô che in occasione dell’assemblea annuale dell’Unione Petrolifera del 1995 evocò la necessità di abolire il regime concessorio sebbene con “giudiziosa gradualità”.
Cosa che avvenne pochi anni dopo  con il Decreto Legislativo n. 32/98, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.  53 del 5 marzo 1998. La data di pubblicazione in questo caso è importante perché arriva ad un anno esatto dal DPR 13 dicembre 1996 che conteneva nuove direttive alle Regioni in materia  di concessioni e self-service. Un provvedimento che, secondo il Sottosegretario all’Industria Umberto Carpi, avrebbe dovuto permettere di far decollare la razionalizzazione della rete “senza particolari scossoni e senza  fare morti e feriti”.
Da rilevare è che questo atto venne pubblicato dieci giorni dopo l’approvazione da parte del Parlamento della cosiddetta “Legge Bassanini” sul decentramento amministrativo, che prevedeva l’ulteriore conferimento di compiti e funzioni a Regioni e enti locali anche in materia di distribuzione carburanti attraverso l’emanazione di uno o più decreti delegati, nonché di regolamenti volti a disciplinare tutta una serie di procedimenti tra cui quelli relativi alla concessione degli impianti disciplinati dalle leggi precedenti. Una chiara dimostrazione delle difficoltà di procedere linearmente, come avviene appunto nel gioco dell’oca.
Con il Decreto n. 32/98, nato sulla scia della “Legge Bassanini”, finisce quindi l’epoca delle concessione tranne che in autostrada dove sopravvive ancora oggi e nel bene e nel male esso rappresentò un punto di cesura con il passato, la cui attuazione tuttavia non fu certo priva di ostacoli e richiese continue e successivi aggiustamenti. Nel giro dei successivi tre anni, infatti, furono varati diversi provvedimenti con rinvii, nuovi indirizzi e linee guida rivolti ad operatori ed enti locali. Il problema principale nella fase di attuazione di tali norme fu però l’inadeguatezza delle strutture amministrative degli enti locali nel fare fronte ai nuovi compiti che la legge affidava loro in materia di verifiche su idoneità tecnica, incompatibilità, autorizzazioni all’esercizio e chiusure volontarie secondo il criterio del “3×1” previsto in una prima fase dal Decreto 32/98. Ciò portò anche a situazioni conflittuali tra Governo e Regioni che in alcuni casi arrivarono sino alla Corte Costituzionale.

Con il Decreto n. 32/98, nato sulla scia della “Legge Bassanini”, finisce quindi l’epoca delle concessione - tranne che in autostrada dove sopravvive ancora oggi - e nel bene e nel male esso rappresentò un punto di cesura con il passato, la cui attuazione tuttavia non fu certo priva di ostacoli e richiese continue e successivi aggiustamenti. Nel giro dei successivi tre anni, infatti, furono varati diversi provvedimenti con rinvii, nuovi indirizzi e linee guida rivolti ad operatori ed enti locali. Il problema principale nella fase di attuazione di tali norme fu però l’inadeguatezza delle strutture amministrative degli enti locali nel fare fronte ai nuovi compiti che la legge affidava loro.

Come se non bastasse, a complicare le cose nell’ottobre del 2001 arrivò la riforma del Titolo V della Costituzione (Legge n. 3/2001) che intervenne ancora una volta  sulle  competenze in materia di distribuzione carburanti, affidandole in via esclusiva alle Regioni (o meglio residuale, come dicono i costituzionalisti) che ebbero così potestà legislativa piena nel recepire i nuovi indirizzi previsti dal Decreto del Ministero delle Attività Produttive 31 ottobre 2001 “Approvazione del Piano nazionale contenente le linee guida per l’ammodernamento del sistema distributivo carburanti” (il cosiddetto “Decreto Marzano”). In pratica, in questo modo si apriva la porta a 20 possibili leggi regionali teoricamente uguali nei principi, ma diverse nell’attuazione, con il concreto rischio di rendere anche più complicata una situazione già abbastanza confusa. Cosa che puntualmente avvenne. Confusione resa ancora maggiore dalla successiva Legge n. 133/08, che i più forse ricordano perché istituì la famosa “Robin Tax” bocciata 7 anni dopo dalla Corte Costituzionale, che abolì ogni tipo di vincolo su distanze, superfici minime e qualunque altra forma di contingentamento. In tal modo venne meno anche la procedura di infrazione aperta nel 2005 dalla Commissione europea che lamentava “ostacoli all’ingresso nel mercato della distribuzione carburanti”, cosa di cui era peraltro convinta anche l’Antitrust che negli anni precedenti aveva avviato diverse indagini senza mai trovare la “pistola fumante” che continuava a cercare. Anche in questo caso il vero problema fu il recepimento delle nuove disposizioni da parte delle Regioni e furono non pochi i momenti di frizione.
Seguirono anni in cui il dossier sulla ristrutturazione della rete venne ripreso più volte, per arrivare al 2012 quando, durante il Governo Monti, venne varato l’ennesimo provvedimento che si proponeva di mettere mano agli assetti di una rete sempre più frammentata e in difficoltà. Fu infatti la volta del “DL liberalizzazioni” (Legge n. 27/2012) che intervenne su aspetti molto delicati, come  l’allentamento del vincolo di esclusiva e la diversificazione dei contratti fermi al solo comodato d’uso, temi peraltro al centro di aspre polemiche negli anni precedenti.

In pratica, in questo modo si apriva la porta a 20 possibili leggi regionali teoricamente uguali nei principi, ma diverse nell'attuazione, con il concreto rischio di rendere anche più complicata una situazione già abbastanza confusa. Cosa che puntualmente avvenne. Confusione resa ancora maggiore dalla successiva Legge n. 133/08, che i più forse ricordano perché istituì la famosa “Robin Tax”.

È evidente che con un quadro normativo così complesso e articolato, dove si vanno a sovrapporre indirizzi statali, regionali, comunali e persino degli enti proprietari della strada, portare a casa dei risultati è molto difficile. Da questo punto di vista, quanto accaduto sulla rete autostradale, anch’essa per anni al centro di ripetuti tentativi di ristrutturazione, è forse l’esempio più eclatante di tentativi privi di reale consistenza attuativa che, in sostanza, hanno tradito le aspettative di un settore fortemente in crisi e interessato dal crollo verticale delle vendite di carburanti (-70% nell’ultimo decennio).
Arrivando a tempi più recenti, vale ricordare da ultima la Legge n. 124/2017 che ha portato finalmente alla creazione di una “Anagrafe nazionale” di tutti gli impianti, individuato una serie di indirizzi ai fini dell’individuazione delle incompatibilità da applicare omogeneamente sul territorio e procedure semplificate per il loro smantellamento in caso di chiusura (recentemente prorogate fino al 2023). Praticamente quanto già previsto sin dal D.Lgs. 32/98, ma quasi vent’anni dopo.
Tirando un po’ le fila di questa lunga disamina normativa, oggi si può senz’altro dire che le auspicate norme di liberalizzazione hanno ridotto solo marginalmente il numero complessivo degli impianti senza portare grossi benefici in termini di efficienza e innovazione. Hanno però prodotto una significativa modifica dell’assetto della rete, con una progressiva riduzione del numero degli impianti di proprietà delle compagnie petrolifere, che si sono razionalizzate con un numero di impianti più  limitato  ma  con  erogati più alti della media nazionale, e di quello degli impianti convenzionati (di proprietà di soggetti terzi con i marchi delle compagnie), a fronte di un aumento notevole delle cosiddette pompe bianche sparpagliate in tanti piccoli operatori. Un mercato fortemente polverizzato dove si sono moltiplicati  i soggetti attivi sul mercato, ma non i controlli, e non solo nella distribuzione finale ma anche nella logistica.
Cosa che ha aperto le porte a fenomeni d’illegalità praticamente esplosi negli ultimi 5/6 anni, come testimoniano le numerosissime frodi scoperte dalle Forze dell’Ordine, le inchieste di diverse Procure nazionali e inchieste giornalistiche che hanno svelato anche la presenza della criminalità organizzata. La ristrutturazione ed evoluzione  della rete rimane perciò un  problema ancora aperto e quanto mai attuale nel dibattito pubblico che, però, richiederebbe una nuova consapevolezza da parte dei policy-maker per non trovarci ancora una volta al punto di partenza.